Esso consiste, scriveva Caffè, nella «accentuazione in senso pessimistico di una situazione che ovviamente non sia brillante ma nemmeno catastrofica» o nel dipingere il nostro paese come sempre sull’orlo dell’abisso o nell’«attribuire al “caso Italia” una singolarità che è, di fatto, inesistente», il tutto con l’obiettivo di «modificare l’esistente stato di cose» e far accettare all’opinione pubblica “riforme” (sempre di stampo regressivo e neoliberale) che vengono presentate come risolutive della affermata “catastrofe”.
Ma che puntualmente non fanno che peggiorare la situazione del paese, avvicinandolo sempre più all’orlo dell’abisso da cui si diceva di volerlo salvare.
rientravano gli eterni appelli – scriveva Caffè nei primi anni Ottanta – alle “riforme” «che avrebbero consentito all’Italia di “restare in Europa”; di “rimanere competitivi”; di evitare scadimenti verso “livelli di sottosviluppo”» (vi ricorda qualcosa?).
Questa «presentazione artificiosamente esagerata dei fatti – diceva Caffè – [rientra] in una strategia oligopolistica rivolta a mettere in crisi un determinato assetto politico-sociale» e a «rafforzare, attraverso l’azione politica, la posizione dei più potenti oligopolisti nel mercato del lavoro».
Negli ultimi quarant’anni, le classi dominanti in Italia hanno sempre fatto ricorso allo sfascismo per portare avanti la propria guerra di classe dall’alto, trascinando il paese sempre più verso il basso. E continuano a farlo ancora oggi: basti pensare ai continui richiami all’innata “debolezza” dell’Italia, perennemente descritta sull’orlo del default, da cui discenderebbe la sua necessità di rafforzare sempre di più il suo ancoraggio all’Europa (vedasi la retorica sul Recovery Fund).
Più che del fascismo, nell’Italia di oggi, come in quella di ieri, c’è da avere paura dello sfascismo, la lotta di classe (dall’alto) con caratteristiche italiane.
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