Come scrisse Adriano Scianca in occasione della morte di Mohammed Alí, siamo invasi da una retorica del cordoglio che prescinde totalmente dall’identità del defunto: chiunque muoia ci sono di mezzo i diritti civili, ma anche un pizzico di cattolicesimo pop.
Affermazione assolutamente condivisibile, ma che meriterebbe una lieve sfumatura; piuttosto, pare che la suddetta retorica finisca per investire, in maniera ferocemente selettiva, solo quei personaggi che incarnano i valori che la borghesia rosé ed i suoi organi d’informazione hanno assunto come inderogabile stella polare.
E trattandosi di una borghesia nata, allattata ed educata a colpi di liberismo, austerità e privatizzazioni, anche l’ottimizzazione dei ricavi e l’incremento degli utili (indipendentemente dalle conseguenze umane che ne sono scaturite) diventano valori che garantiscono l’accesso nell’ultraesclusivo club del “necrologio 2.0″.
Muovevamo dalla ferma convinzione che i sentimenti nutriti verso uno dei top manager più iconici del momento (tanto da rappresentare quasi il prototipo dell’amministratore delegato nell’era della globalizzazione) fossero facilmente pronosticabili e suddivisibili in maniera elitaria.
Eravamo pronti a credere che il giudizio su una figura così netta ed inevitabilmente divisiva, potesse rappresentare la cartina di tornasole per decifrare l’humus sociale ed economico nel quale il singolo è cresciuto: quasi si trattasse di un termometro culturale per individuare le fasce di reddito senza bisogno di una dichiarazione fiscale.
Auspicavamo che persistesse una sorta di solidarietà di classe, un sentimento di aggregazione tra gli ultimi -abbandonati da questa società avida e borghese-, che li rendesse impermeabili al processo di omologazione che orienta ed impone i giudizi di merito. Quel processo che santifica senza contraddittorio personaggi che, obtorto collo, hanno dovuto fare gli interessi di pochissimi ed il male di molti in virtù del ruolo istituzionale (ed in questo caso professionale) ricoperto.
Questa presa di coscienza ci mette di fronte alla categoria più insipiente e masochista presente sulla faccia della terra: il liberista povero. Una categoria ben più insulsa dei vecchi ed estinti “comunisti con la barca a vela”; che saranno stati tremendamente ipocriti, ma almeno avevano la giusta dose di furbizia per non autotumefarsi i testicoli come Tafazzi nelle giornate di gloria.
Figlio di maresciallo, Marchionne ha conseguito tre lauree, la prima in Filosofia, da emigrato in Canada. Poi è diventato il manager più pagato d’Italia su pressione di un morente Umberto Agnelli.
Marchionne, in questa prospettiva non solo ha salvato i suoi “padroni”, ma li ha de-italianizzati com’era accaduto a lui prima (cittadinanza canadese e residenza in Isvizzera: cittadino del mondo che delocalizzò le sedi di Fiat, ora FCA in Regno Unito e Olanda). E poi li ha arricchiti. Ha in un certo qual modo riunito una famiglia, numerosissima, di azionisti, che si raggruppa nella società-cassaforte di famiglia: la mistica Exor.
Da centoventimila a ventinovemila occupati: ecco come ha salvato un’azienda dal fallimento. Ha altresì concesso che migliaia di lavoratori finissero cassintegrati, senza la dignità del lavoro. Ha delocalizzato nella vicina ma lontana Serbia. Ha tagliato i ponti con i sindacati, ha fatto uscire l’Azienda da Confindustria.
Il vero problema però, come alcuni lettori sulla nostra pagina Facebook ci hanno indicato, è della politica italiana, dove la sinistra (come abbiamo più volte rilevato) è totalmente assente. La politica italiana è responsabile di non aver creato condizioni di lavoro accettabili, concedendo rinnovi estenuanti, cassintegrazioni, non applicando i Sindacati per come descritti in Costituzione, di aver permesso a un’azienda come la Fiat di prendere tanti prestiti di Stato senza doverli poi restituire o cedere in cambio quote allo Stato.
I suicidi tra gli operai precari o cassa integrati della Fiat, negli ultimi 30 anni, sono stati più centinaia di quelle che si vorrebbe ammettere. (Si abbia riguardo a questo studio se si vuole indagare la materia del suicidio per motivazioni economiche negli ultimi anni in Italia: http://linklab.unilink.it/suicidi-motivazioni-economiche-1-semestre-2016/).
Evidentemente salvare un’impresa per far arricchire pochi dirigenti e far speculare in borsa qualche broker è un risultato positivo indipendentemente dal prezzo umano che la società ha dovuto pagare. Allora chapeau, caro Sergio.
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