E sì che l’Italia sembrava un sogno steso per lungo ad asciugare, sembrava una donna fin troppo bella che stesse lì per farsi amare, sembrava a tutti fin troppo bello che stesse lì a farsi toccare. E noi cambiavamo molto in fretta il nostro sogno in illusione incoraggiati dalla bellezza vista per televisione, disorientati dalla miseria e da un po’ di televisione…
Pane e coraggio, commissario che c’hai il cappello per comandare, pane e fortuna, moglie mia che reggi l’ombrello per riparare, per riparare questi figli dalle ondate del buio mare e le figlie dagli sguardi che dovranno sopportare, e le figlie dagli oltraggi che dovranno sopportare… Ma soprattutto ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole” (Pane e coraggio, Ivano Fossati).
dovrebbe essere fatta ascoltare a Matteo Salvini e a tutti i Salvini della terra in modalità Guantanamo dove i torturatori americani.
Sul suolo immacolato e ipocrita degli States la tortura è, almeno ufficialmente, proibita, ma si può sempre farla nei Paesi altri – Guantanamo è territorio cubano – oppure per interposta persona come fu per Abu Omar, rapito a Milano e portato, via Aviano, con la complicità dei nostri servizi segreti e del nostro governo, premier Berlusconi, in quel simpatico luogo di soggiorno che è la prigione cairota di Tora, dove oggi è rinchiuso Patrick Zaki) assordano i prigionieri giorno e notte fino allo sfinimento, l’abbruttimento, l’impazzimento.
si riferisce all’emigrazione degli albanesi, quando, caduta la dittatura comunista, gli albanesi, che dalle vicine coste d’oltreadriatico potevano vedere la televisione italiana, credettero di trovare nel nostro Paese (“E sì che l’Italia… sembrava a tutti fin troppo bello che stesse lì a farsi toccare”) la loro fortuna senza poter sapere, come sanno invece coloro che lo vivono, di che “lacrime e sangue” grondi il modello di sviluppo occidentale.
Ma l’emigrazione albanese è niente rispetto alle migrazioni attuali che coinvolgono milioni di persone che si muovono verso di noi, in genere dai Paesi dell’Africa subsahariana, disposte ad affrontare qualcosa di peggio degli oltraggi alle loro donne: l’attraversamento dell’inferno libico, che proprio noi abbiamo creato, le tempeste e, molto spesso, la morte.
come fa Salvini e non solo lui. È la nostra stessa presenza ad essere ammalante, anche quando non abbia cattive intenzioni. Mi scrive il lettore Enzo Formisano che ha lavorato molti anni in paesi dell’Africa Nera: “Non ammazzavamo nessuno. Costruivamo linee elettriche, niente di più. Ma bastava la nostra presenza (persone ricche, ben pasciute e piene di oggetti) per portare tra quelle popolazioni un senso di smarrimento e di povertà”.
È la distinzione sociologica fra poveri e miserabili. Non c’è nessun problema ad essere poveri dove tutti, più o meno, lo sono, una volta che si abbia l’essenziale, cibo, socialità, abitazione e vestire (per alcuni popoli africani, per esempio i Masai, non c’è, o meglio non c’era, nemmeno il problema dei vestiti, giravano nudi coperti solo da un minuscolo perizoma). Il problema sorge nel confronto con un’opulenza più o meno sfacciata, creando invidie, frustrazioni e frantumando la solidarietà della comunità.
e sociale della questione. Il fatto è che più introduciamo, con le buone o con le cattive, il nostro modello economico fra quelle genti, più le strangoliamo ulteriormente e definitivamente, senza possibilità di ritorno. Da qui, oltre la perdita di identità, la fame che spinge a migrazioni bibliche che cerchiamo di stoppare in ogni modo.
Una trentina d’anni fa, durante una riunione del G7, i sette paesi più poveri del mondo, con alla testa l’africano Benin, organizzarono un controsummit al grido di “Per favore non aiutateci più!”. Non li abbiamo ascoltati, siamo o non siamo “la cultura superiore”? E così continuiamo quotidianamente a cibarci, oltre che delle crostatine mangiate “prima dal bordo e poi dal centro” come recita una pubblicità del Mulino Bianco, di carne umana.
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